lunedì 19 luglio 2010

RESTI DI UN'ATTESA - Le fortificazioni della seconda guerra mondiale nel territorio di Alghero

di Raffaele Sari Bozzolo

Forse vi fu anche qui un tenente Giovanni Drogo ad attendere i tartari.
La possibilità di uno sbarco alleato in Sardegna fu al vaglio delle autorità militari dell’Asse fin dai primi anni della seconda guerra mondiale e - seppure con lo scetticismo di alcuni – l'ipotesi fu presa molto sul serio dagli alti comandi. In tal senso non posso esserci dubbi, se già nel 1941, quando ancora la guerra sembrava volgere a favore dei progetti del terzo Reich, sull'isola si costruivano, con grande attenzione ed un importante impiego di risorse, fortificazioni di ogni tipo diffuse lungo tutte la costa, in particolare intorno ai grandi golfi. Lo scenario che si prospettava come più probabile era un martellamento aereo di preparazione, una testa di ponte creata da truppe scelte paracadutate e a seguire uno sbarco in forze. Tra i possibili approdi spiccava la rada di Porto Conte.
Ancor più degli italiani, i tedeschi erano convinti che la Sardegna potesse rappresentare l’ideale testa di ponte per un eventuale massiccio sbarco nemico sul continente, o forse semplicemente la ritenevano una roccaforte naturale dalla quale organizzare un controllo del Mediterraneo. Hitler sembrava ossessionato da questa possibilità e forse era stato proprio Mussolini a suggestionarlo con una delle sue definizioni immaginifiche: «La Sardegna è la portaerei del Mediterraneo».
«Se sfondano il fronte africano, sbarcheranno in Sardegna e in Grecia, per chiuderci a tenaglia», andava ripetendo il fuhrer nelle riunioni con il suo Stato Maggiore. Tra i generali e gli strateghi nazisti l’ipotesi non trovava consensi unanimi, ma nessuno osava contraddire le visioni del fuhrer, neppure il suo alleato italiano; dunque già dal 1941 non si lesinarono investimenti per la costruzione di fortificazioni e bunker lungo le coste sarde; poi - man mano che le sorti della guerra sembrarono capovolgersi - con frenesia crescente, aumentò la corsa ad allestire un’accurata linea di difensiva, completando quanto il genio militare italiano e le ditte private locali avevano già eretto fin dal 1940 in ossequio alle direttive del Duce.
Dalla fine di aprile del ’43 l’eventualità dello sbarco sull’isola, fino ad allora ritenuta comunque remota e sottovalutata dallo Stato Maggiore italiano, prese decisamente consistenza per una brillante operazione di depistaggio che i servizi segreti inglesi avevano saputo ordire. Ai primi di maggio sull’isola scattò l’allerta. Lo sbarco poteva essere imminente. Bisogna attendersi un attacco congiunto dal mare e dal cielo. Si pronosticavano bombardamenti preparatori, lanci di paracaduti guastatori, movimenti di imponenti flotte.
Ormai si trattava di aspettare, poiché a quel punto non c’era più tempo per costruire nuove fortificazioni.
Hitler era compiaciuto che le sue previsioni strategiche avessero trovato conferma e contro il parere di alcuni suoi generali spostò le sue pedine, ordinando un poderoso trasferimento di uomini e mezzi dalla Sicilia alla Sardegna.
Iniziò allora la vana attesa del nostro tenente Drogo.
Oggi, sessantasette anni dopo la conclusione del conflitto mondiale, il comune di Alghero registra ancora nel suo territorio una folta ed interessante presenza di fortificazioni militari in buona parte in uno stato di conservazione ancora apprezzabile, anche se nel totale abbandono; un notevole richiamo per gli appassionati, una meta da raggiungere ed esplorare per i molti cultori dello studio dei ruderi militari dell’ultimo conflitto mondiale. Ecco le vestigia di questa storia. I resti di un’attesa.
A pochi chilometri dal centro abitato di Alghero, salendo verso Monte Dolla, un promontorio che spicca nella piana di aree coltivate, pascoli e pinete della Nurra, a metà del tortuoso percorso, giunti proprio all’ingresso di una folta e silenziosa pineta, ci si imbatte in alcuni edifici che ospitarono numerosi alloggi destinati alle truppe: si tratta di un complesso realizzato in tre sezioni distinte, una delle quali risulta isolata dalle altre due. Ne restano solo le murature, poiché i tetti in tegole su struttura in legno e tutti gli infissi, nel tempo, sono andati distrutti dagli agenti atmosferici o smantellati da chi ne ha riutilizzato i materiali.
Altri sette edifici identici a questi si trovano ai piedi del monte, disposti a schiera e strategicamente posizionati a pochi chilometri dall'aeroporto militare e dai più importanti accampamenti delle truppe. Le opere furono realizzate, come altre simili nel territorio, dalla ditta Ticca, probabilmente tra il 1940 e il 1942, biennio in cui il “Mom” (la manodopera militare) a seguito di una serie di circolari ministeriali, provvide ad un’intensa opera di edificazione e potenziamento delle fortificazioni e dei bunker lungo le coste.
A Monte Dolla, nelle vicinanze degli edifici adibiti ad alloggi vi erano le fortificazioni vere e proprie; ben mimetizzate e quasi invisibili persino da chi percorra la zona a piedi. La costruzione principale era sempre di forma rotonda, con una trincea coperta e sotterranea che correva lungo un’ampia circonferenza; il tutto era realizzato abbassando il livello del suolo di circa 150 cm. e ponendo al centro una colonna che doveva reggere anche una eventuale copertura mimetica aggiuntiva. La trincea aveva, ogni pochi metri, lungo tutto il perimetro dei cunicoli sotterranei, le "bocche di lupo" praticate nei soffitti, ossia delle strette aperture rettangolari, dalle quali - oltre ad entrare la luce - era possibile far spuntare le canne delle armi da fuoco.
Se guardiamo al resto del territorio, si segnalano molte costruzioni simili, ancora in gran parte intatte, lungo tutta la costa algherese e anche verso l’interno del territorio (strada per il Santuario di Valverde, strada per le miniere di Salondra, zona Sant'Anna, zona Carabuffas, zona San Giuliano, strada per Olmedo Sassari, strada per Capo Caccia e dorsali collinari limitrofe, Santa Maria La Palma, Lago di Baratz, ecc.) e qualche volta ci si imbatte in interessanti varianti costruttive, accomunate quasi sempre da intricate ramificazioni di trincee o gallerie sotterranee, ancora mimetizzate dalla vegetazione, e sempre con le temibili aperture per le mitraglie disposte a pochi metri l'una dall'altra. In taluni casi stupisce il perfetto integrarsi delle postazioni nelle peculiarità morfologiche e nella macchia mediterranea, l'invisibilità quasi totale nell’ambiente naturale, frutto probabilmente di intuizioni costruttive che oggi farebbero pensare a chissà quali studi precedenti alla fase di edificazione e che invece rendono merito alle capacità di adattamento e mimetizzazione degli oscuri progettisti del genio militare italo-tedesco. Le torri aragonesi e persino i nuraghe venivano recuperati, integrati o riprodotti nel profilo del territorio per nascondervi imprevedibili postazioni militari, nidi di mitraglia inespugnabili ed indistinguibili all'occhio del nemico. Persino le caratteristiche geologiche del territorio venivano abilmente asservite all'uso: un mirabile esempio è in parte ancora oggi visibile lungo il promontorio di Punta Giglio, dove - intorno ad una grande caserma di pietra calcarea si conserva un articolato sistema difensivo, perfettamente mimetizzato tra le rocce e la vegetazione spontanea, costituito da depositi per le armi e le munizioni, rifugi, piattaforme per antiaerea e batterie di ariglieria per la difesa costiera, il tutto spesso collegato da passaggi sotteranei che sfruttavano le molte caverne e gallerie naturali create dal carsismo della zona.
Proprio da qui, da queste fortificazioni ardite, a picco sul mare, il nostro tenente Drogo deve forse aver sognato, sperato o temuto di poter scorgere all’orizzonte, prima o poi, le nere sagome di una flotta di invasori. Quel giorno non arrivò mai ma a camminare fra quelle rovine, ancora oggi, il vento tra gli arbusti, il mare sulla scogliera, sembrano ancora sospesi in quell’infinita attesa.
In tutta la Nurra oggi risulta quasi impossibile un censimento dei fortini di calcestruzzo dalla caratteristica copertura globulare o dei piccoli bunker a parallelepipedo sparsi in ogni dove, non solo lungo la litoranea e lungo tutte le principali strade di comunicazione con l’interno, o su ogni costa di monte o collina che poteva offrire un luogo strategico e privilegiato per l’osservazione ed il controllo del territorio, ma persino in mezzo agli uliveti che circondano la città oggi come allora.
Le truppe germaniche erano accampate, insieme a reparti di fanteria italiana, alla periferia della città, nell’attuale area cimiteriale, ma erano pronte a controllare strategicamente il territorio in un’azione di difesa proprio con gli uomini che avrebbero dovuto presidiare alcuni di questi piccoli bunker; secondo le testimonianze dell’epoca molti di questi in realtà non furono mai utilizzati se non in occasione di esercitazioni.
Non si tratta certamente di capolavori architettonici né di reperti archeologici, ma testimoniano una storia recente, che spesso e a torto, si sente dire che da queste parti sia passata solo marginalmente.
Ecco, quei fortini raccontano di una storia, purtroppo ancora recente e che in certi luoghi del mondo non sembra poi neppure così trascorsa, ma anche di una drammatica e logorante attesa, di un orizzonte d’inquietudine e paure, mai affollato dai “tartari” ma che comunque non scampò alla gente di qui, nel suo epilogo, il sangue, la fame e la disperata confusione che la guerra mondiale portò sulla nostra povera patria; in quei ruderi militari oggi spesso pieni di immondizie resta ancora qualcosa della nostra memoria.
Credo che si dovrebbe prevedere un opera di tutela e conservazione di questi “mostri”, perché questi, ormai innocui, possono insegnare ai nostri figli più che cento lezioni di storia il volto freddo ed arcigno della guerra, l’angosciante militarizzazione di un pacifico paesaggio, trasmettendo una memoria collettiva appartenuta alla gioventù dei nostri padri, che assolutamente non va perduta.

1 commento:

  1. molto utile per tutti coloro che come me, quest' anno devono sostenere l' esame di 3°media e non solo.

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