domenica 18 luglio 2010

La notte del 17 maggio 1943. La controversa cronaca del bombardamento di Alghero.



Un crimine di guerra si consumò la notte di lunedì 17 maggio 1943. La notte di San Pasquale.
A 67 anni da quella data, ancora sembra non essere giunto il momento di riconoscere alle vittime di quell’azione il diritto di ottenere giustizia e una più corretta memoria storica. Basterebbe la verità. Se si legge la cronaca di quel giorno si intuisce che vi fu chi da subito lavorò per mescolare le carte, depistare, nascondere. Come spiegare diversamente le domande su quella disgraziata notte di maggio rimaste fino ad oggi senza una risposta? Perché bombardarono il centro abitato? Chi e come avvertì la popolazione dell’imminente tragedia? Quali furono le reali dimensioni della strage e vi fu casualità o calcolo nel generarle?
Giungeva una notte di luna piena, una calda notte di rigoglioso maggio a conclusione di una giornata di sole e cielo terso, tra le più calde di quella primavera tanto attesa dopo un rigidissimo e lungo inverno. La guerra viveva il suo anno più tragico e violento; le ristrettezze si erano fatte sentire su tutti gli strati sociali e in molti pativano da mesi fame e stenti inimmaginabili. La povertà s’era diffusa come una pestilenza ed i volti di molti algheresi, uomini e donne, bambini ed adulti, ne erano segnati. Eppure quella radiosa e profumata primavera aveva riacceso speranze e forze. Le campagne intorno alla città erano una distesa di gialli agrets e il mare, da giorni calmo come un’olla sembrava offrirsi come uno specchio ad una bella e vanitosa donna. Molti bambini non andavano più a scuola e per le strade i loro giochi e i loro allegri schiamazzi sembravano davvero far credere che il peggio fosse passato. Le signorine in età da marito s’adornavano con nulla e riassestavano i vecchi vestiti perché anche in guerra la primavera richiamava ostinata ai riti del corteggiamento.
Giungeva così una notte che avrebbe potuto promettere tepore e tranquillità, eppure da molti era vissuta con un senso d’angosciosa attesa e sospensione.
Secondo alcuni, vi furono sinistri presagi già al tramonto, quando sull’orizzonte si potè distinguere “una lunga fila di nere navi da guerra”. I più informati rassicurarono che era un convoglio italiano. Ma altre voci avevano agitato la popolazione, sin dalle prime ore del mattino; infatti diverse testimonianze avvalorano la tesi che durante quella giornata, già molte ore prima, si fosse sparsa la voce di un possibile bombardamento; dopo tanti falsi allarmi, qualcuno avrebbe anticipato a parenti e amici che quella data sarebbe stata fatidica per la città.
Certo è che all’alba di quel giorno tanti algheresi abbandonarono le loro abitazioni per sfollare nelle campagne circostanti o addirittura nei paesi dell’interno. In verità quel pellegrinaggio era cominciato da diverse settimane, ma il 17 maggio lungo le strade che portavano a Carrabuffas o verso Villanova c’erano file di carretti che trasportavano materassi, mobili, quadri e tutto ciò che evidentemente si voleva salvare insieme con la propria famiglia. Improvvisamente si era sparsa una gran frenesia e la certezza che la notte fatale stava per giungere. Chi aveva diffuso la notizia? Secondo taluni, sarebbero state alcune donne, di ritorno da un forno cittadino, a far circolare concitatamente la voce dandola come certa spingendo molti, fino ad allora ancora indecisi, a raccogliere famiglia, indumenti e vettovaglie e a trasferirsi in fretta e furia lontano dalla città. Altre testimonianze riportano come fonte della notizia gli ambienti militari e in particolari alcuni soldati ed alcuni impiegati civili dell’aeroporto militare. C’è stato persino chi ha parlato di un volantinaggio di avvertimento degli anglo-americani avvenuto nei giorni precedenti, ma non si è mai trovata traccia di neppure un lembo di quei volantini. Dove sarebbe avvenuto? Presso l’aeroporto, secondo alcuni (questo spiegherebbe la fonte militare della notizia); altri ricordano il presunto volantinaggio diffuso sulla città da “Pippo”, il piccolo ricognitore inglese che gli algheresi vedevano da settimane, quasi quotidianamente, attraversare lento il loro cielo. Sui volantini, secondo queste testimonianze ci sarebbe stato l’invito ad evacuare la città e persino l’orario del bombardamento: dalle 22.30 alle 24.00. I ricordi sono però discordanti anche sulla data: proprio la notte di San Pasquale secondo alcuni; una data precedente - che si rivelò un bluff - secondo altri.
Queste testimonianze orali sono troppo discordanti e confuse e quindi purtroppo restano racconti più o meno fantasiosi e dovranno essere considerati tali finché non se ne troverà prova tangibile.
Fino ad allora l’unica verità plausibile sarà che Alghero venne bombardata senza nessun preavviso né ufficioso o clandestino né propagandistico. La propaganda semmai avvenne dopo, nel confondere ad arte queste notizie, magari per diffamare gli antifascisti o alleviare le responsabilità di chi perpetrò un simile insensato massacro, poiché poco importa sapere se davvero ci fu chi seppe per tempo; interessa semmai stabilire quali furono i motivi strategici, quale la logica militare che giustificò una simile barbarie.
Certo fa effetto l’osservazione che mi fece un testimone di quella notte: «Era tutta povera gente. I signori se n’erano andati da un pezzo».
Scorrendo l’elenco ufficiale dei morti non vi è neppure un nobile, neppure un signore dell’alta borghesia cittadina. Come potè accadere se il bombardamento fu indiscriminato, a macchia di leopardo su tutta la cittadina?
A dire il vero neppure un palazzo nobiliare, fra quelli che sorgono nel centro storico, fu abbattuto dalle bombe; crollarono quasi esclusivamente caseggiati popolari. Un’altra beffa del destino.
L’insensata violenza di chi stava pianificando i raid aerei sulla Sardegna era già stata testimoniata dall’attacco che alcuni giorni prima aveva massacrato alcuni pescatori nella rada di Porto Conte al termine di un raid sull’aeroporto militare o che mesi prima, a Febbraio, si era inspiegabilmente scatenato sull’innocuo e inerme paesino di Gonnosfanadiga provocando diverse decine di vittime, prevalentemente donne e bambini.
Quattro giorni prima di quella notte, a Cagliari un bombardamento notturno inglese aveva sganciato 893 bombe sul centro abitato colpendo oltre a centinaia di abitazioni, ospedali, chiese, infrastrutture civili. La strage si ergeva a metodo.
Nel tentativo di spiegare le ragioni del bombardamento della notte di San Pasquale, alcuni hanno avanzato giustificazioni che presentano Alghero come un obiettivo strategico di grande importanza militare sottoposto quindi ad una normale azione di guerra. Fandonie. I veri obiettivi erano ben distanti dall’abitato: l’aeroporto di Fertilia (più volte pesantemente colpito, prima e dopo il 17 maggio del 1943), la rada di Porto Conte (che però non ospitava in quei giorni nessuna significativa unità della marina italo-tedesca), gli alloggiamenti e le fortificazioni militari lungo le pendici di Monte Doglia e a Punta Giglio, l’accampamento della truppa italo-tedesca nella zona del cimitero.
Le stalle militari, le batterie contraeree sulle torri della Muraglia, da sole non potevano giustificare la necessità di un così massiccio attacco aereo e - anche se allora non si parlava ancora di tecniche di bombardamento di chirurgica precisione – la bassa quota dell’incursione non poteva giustificare errori così macroscopici. Dunque nessun errore fu compiuto.
La verità è che da tempo gli anglo-americani avevano dato il via ad una strategia bellica più sanguinaria e spietata, che prevedeva il bombardamento di obiettivi civili con lo scopo di fiaccare il morale del nemico creando sconforto e rassegnazione nella popolazione, demolendo qualunque residuo consenso al regime.
In questa strategia, avevano un ruolo crescente, per il grande impatto emotivo e psicologico, i bombardamenti notturni sui centri abitati, specialità inglese che proprio quella notte venne mostrata al generale americano James H. Doolittle, seduto, come secondo pilota, a bordo di un Wellington Mark III, affianco al comandante Matthewman, squadron leader dell’operazione.
Il bombardamento fu “appesantito” dalla presenza di un’importante e ambizioso generale americano, momentaneamente impegnato in un teatro di guerra di secondaria importanza? Lo scempio gratuito sugli obiettivi civili fu il frutto di un eccesso di zelo di un ufficiale inglese che voleva facilmente arricchire il suo già ricco curriculum proprio sotto gli occhi di un suo illustre superiore e preferì ripiegare sulla città piuttosto che sull’aeroporto di Fertilia, dove avrebbe incontrato la resistenza di una più efficace contraerea? Si trattò forse di un’azione “didattica” a scopo di aggiornamento per il generale Doolittle ansioso di verificare dal vero la tecnica del bombardamento notturno? Fu lui stesso a richiederla?
Certo è che non fu un atto inconsapevolmente crudele, se lo stesso Matthewman non ne fece più menzione fra le sue memorie, ricordandosi dell’incursione sull’aeroporto di Fertilia ma dimenticandosi, guarda a caso, del lungo bombardamento del centro abitato di Alghero.
Certi dubbi e certe considerazioni possono farci propendere verso l’ipotesi di un’azione più devastante del previsto, ma non negano che si trattasse di qualcosa di programmato ed inserito in una strategia più ampia e criminale perpetrata ai danni della popolazione civile, come dimostrano altri bombardamenti su centri abitati avvenuti nello stesso periodo bellico e dunque responsabilità dei massimi vertici anglo-americani.
La limpida notte di luna piena e i razzi luminosi, che scendevano lenti verso il suolo frenati ciascuno da un paracadute azzurrino, avevano mostrato chiaramente gli obiettivi ai bombardieri, che probabilmente scesero anche a quote relativamente basse (1). Molti ricordano di aver distinto a pochi metri dai tetti i velivoli con i tre cerchi concentrici della RAF, che lanciavano le loro bombe e mitragliavano alla cieca: colpirono dunque deliberatamente l’ospedale, l’episcopio e le chiese (dove, sapevano, era uso si rifugiassero molti fedeli), insistendo su queste ultime come fossero obbiettivi militari. Sorvolarono più volte il centro abitato, infierendo su punti di fitta edificazione (le principali ferite sono ancora oggi riconoscibili nelle piazzette aperte dai crolli lungo via Roma e corso Carlo Alberto, già allora le vie principali del nostro inurbamento); colpirono solo marginalmente e quasi casualmente la periferia. Studiando la cartografia dei punti dove colpirono le bombe, è evidente l’intenzione di creare i danni più vistosi e fare il più alto numero di vittime.
Vi è un’altra “leggenda” significativa, che ricorre nei racconti dei vecchi reduci: quella delle croci. Taluni hanno raccontato che oltre alla grande croce rossa sul tetto dell’ospedale, aumentando il timore di un ormai imminente bombardamento, fossero fiorite altre croci simili ma “abusive” su molti altri tetti, persino su quelli del “quartiere” dietro San Michele dove aveva alloggio una guarnigione di fanteria. Ma anche questa è più una barzelletta o una gustosa storiella che vorrebbe giustificare l’indiscriminato accanimento delle bombe inglesi, disorientate dalla malizia delle finte croci che si era infine ritorta contro la popolazione innocente e contro quegli edifici che si sarebbe potuto risparmiare. La sleale furbizia di alcuni giustificherebbe così gli “errori” o la crudeltà dei liberatori.
Dopo tante voci e memorie, vere e false, resta la cronaca dei fatti alla quale torniamo.
Il rombo degli aerei giunse sull’obbiettivo alle 22,53 e si allontanò definitivamente dopo quarantatre minuti di fragori ed esplosioni, inframmezzati solo da brevi pause: il tempo di pregare.
I temuti bombardieri notturni inglesi Wickers Wellington, dei 142° e 150° squadroni RAF, si erano levati in volo da Fontaine Chaud in Algeria verso le 20.30; provenivano dalla campagna d’Africa e infatti erano “tropicalizzati”, avevano cioè la carena e le ali mimetizzate con colori sabbia, marrone e verde e procedevano, in ordine sparso o in piccole formazioni, preceduti dagli aerei guida pathfinders che avevano il compito di illuminare gli obiettivi con bengala al magnesio.
La possibilità che in formazione vi fossero anche un certo numero di P.38 americani, particolarmente accaniti nel lavoro sporco di mitragliamento delle strade, sarebbe anche plausibile visto che questi bombardieri normalmente viaggiavano scortati dai caccia e considerato che in molti testimoniano d’aver distinto, fra le esplosioni ed i rombi degli aerei nemici, l’incessante sferzare delle mitraglie, ma il fatto che l’operazione sia avvenuta di notte ci permette di comprendere queste memorie fra i falsi involontari che negli anni possono crearsi con il sovrapporsi dei ricordi: i P.38 mitragliarono a più riprese Alghero e certamente pochi giorni dopo il bombardamento vi fu un violento “spezzonamento”, ma diurno e senza la contemporanea presenza dei Wellington.
Dapprima gli aggressori giunsero sull’aeroporto. Qui le versioni sono discordanti. Secondo i rapporti inglesi fu un obiettivo piuttosto facile, al punto che i bombardieri scesero a “tale bassa quota che le mitragliatrici degli aerei spararono sull’obiettivo e contro le luci di posizione dell’aerodromo” e naturalmente senza subire alcuna perdita inflissero notevoli danni alla struttura e agli aeroplani italo-tedeschi a terra, in pista e negli hangars. Secondo le testimonianze di alcuni militari e civili di servizio all’aeroporto, invece, l’attacco non fu dei più riusciti. La contraerea da Monte Doglia era stata reattiva e dalla pista si erano persino levati in volo veivoli a contrasto delle formazioni inglesi; il tutto avrebbe quindi convinto i bombardieri ad un rapido ripiegamento sul centro abitato. Fino ad oggi è stato impossibile accertare la veridicità di una delle due versioni, ma quel che è certo è che le minacciose sagome dei bombardieri inglesi, poco dopo, giunsero su Alghero. Proprio da alcuni impiegati all’aeroporto viene la testimonianza più interessante circa la presenza dei caccia nella formazione d’attacco di quella notte. Molti fra loro si sono detti certi di ricordare l’inconfondibile fusoliera a due code dei P.38.
Gli adetti agli aerofoni, le apparecchiature per l’ascolto dei cieli a sentinella della città dalla torre di Porta Terra, avevano segnalato per tempo, i motori degli aerei nemici in avvicinamento e le sirene d’allarme avevano suonato già da qualche minuto quando le formazioni dei bombardieri avevano fatto la loro lugubre comparsa. Gli algheresi avevano raggiunto i rifugi, si erano ammassati nei sottani, si erano radunati in chiesa, oppure erano rimasti immobili, pietrificati dal terrore, nella loro abitazione.
Dalla torre di Sant’Elmo e da quella di San Giacomo, dove erano disloccate le mitragliere per la difesa antiaerea, si era attivata una qualche reazione, ma quasi subito le armi s’incepparono e le postazioni vennero abbandonate; gli aerei poi inizialmente erano ancora alti e i pochi traccianti ne svelavano appena le sagome; si udiva ovunque il loro sordo rombo, sembrava la voce cavernosa di un demonio che saliva dalle viscere della terra, invece veniva dal cielo. Forse le bombe cercarono di colpire l’ottogonale torre di San Giacomo, anche se ormai la mitragliera taceva, ma schiantarono un palazzo di fronte alla chiesa della Misericordia, poi più in là un altro davanti a San Michele, poi ancora uno a lato del ginnasio e ancora uno tra vicolo Buragna e corso Carlo Alberto. Presto da tutto l’abitato si udirono nuove esplosioni, nuovi fragorosi crolli: dalla zona intorno all’ospedale, dalla cattedrale di Santa Maria, da via Roma.
Dalla banchina della Sanità, al porto, un MAS che si trovava lì all’ormeggio, ora che gli aerei erano spavaldamente scesi a bassa quota, iniziò coraggiosamente a sparare contro i nemici con la mitragliera di bordo e registrò un abbattimento mai confermato dai rapporti degli inglesi ma forse comprovato da certi rottami recuperati a distanza di anni sulla spiaggia di Sant’Imbenia.
Chi non era corso nei rifugi, si era nascosto sotto i tavoli, era corso in strada, era rimasto paralizzato dove si trovava, abbracciava i figli e pregava. Il rombo, le grida, i lampi ed i mostruosi ruggiti dei palazzi che si sbriciolavano, accasciandosi su se stessi, sembravano non finire mai; ad ogni pausa, ad ogni illusoria conclusione seguiva una ripresa che sembrava ancor più violenta. Ad ondate successive alcuni velivoli calavano in picchiata sull’abitato e mitragliavano.
Dalle campagne circostanti i molti sfollati assistevano increduli a quell’allucinante visione. Come torme di fameliche Arpie, le sagome dei veivoli inglesi sorvolavano la città incrociando le loro rotte e ritornando più volte sugli obiettivi; il fischio continuo ed ossessionante dell’aria ferita dalle bombe, il frastuono delle esplosioni, il cupo fragore dei crolli e le nuvole di polvere bianca che si levano nel cielo illuminate dalla luce gialla dei bengala, offrivano un profilo mai visto della nostra città.
Gli sfollati cercavano di capire dove erano cadute le bombe, dove crollavano i palazzi, spettatori impotenti di un massacro, di un’orda barbarica che distruggeva il loro piccolo mondo.
Finito finalmente lo strazio, le luci della città erano rimaste spente, ma lo splendore della luna fu impietoso e rivelò da subito ai sopravvissuti il terribile scempio.
Erano stati colpiti 3157 metri quadrati di superficie edificata. Le abitazioni distrutte o rese inagibili erano almeno 500. Cominciava subito il penoso conto dei morti. Secondo alcuni dati ufficiali rilevati dai registri cimiteriali nei giorni immediatamente successivi, furono dapprima computate 54 vittime. Ma il dato non fu reso pubblico. Al contrario i radio giornali fornirono cifre assai inferiori nel tentativo di ridimensionare l’accaduto. A distanza di anni, il computo dei caduti è salito, ed è ormai prossimo a 110. Forse però non siamo ancora giunti alla verità, poiché - a suo tempo - il poeta Carmen Dore, figlio di impiegati comunali, affermò di aver appreso proprio da questi un numero assai maggiore di morti: oltre 160.
La discordanza di queste cifre non dipese però solo dalla censura e dalla propaganda, istituti ormai deboli come il regime che li aveva instaurati ma più semplicemente dal fatto che molti corpi vennero ritrovati giorni, addirittura mesi dopo, finendo poi sepolti e registrati senza più la dicitura di vittima del bombardamento.
Al di là d’ogni cifra, il senso della strage emerge dalla prima cosa che si può notare scorrendo l’elenco dei morti: erano per la maggior parte donne e bambini, madri e figli.
Dati accettati e per certi versi curiosi furono che il numero dei feriti, in proporzione, fu piuttosto contenuto e che la maggior parte delle vittime risultarono morte per soffocamento anche e soprattutto a causa della fine polvere sprigionata dagli intonaci sbriciolati dai crolli e dalle esplosioni.
Tra le macerie, alle prime luci dell’alba, il vescovo monsignor Ciucchini, che non aveva voluto abbandonare la sua abitazione, fu tra i primi a percorrere le vie della città, a soffermarsi in raccoglimento di fronte ai cumuli di macerie, a portare una parola di conforto ai sopravvissuti, a cercare di offrire anche il primo aiuto concreto.
Nei giorni successivi Alghero si spopolò: per mesi e mesi restarono in città quasi solo le forze dell’ordine. La gente fuggiva per paura che potesse riaccadere qualcosa di simile, ma anche per non vedere più quel tetro scenario da incubo, che sfregiava il volto della città.
Le zone più colpite erano infatti alcuni dei luoghi più cari alla quotidianità degli algheresi: l’Ospedale ed i bastioni, la Cattedrale, via Carlo Alberto, via Roma, via Principe Umberto, il lungomare Dante e via Vittorio Emmanuele.
Sembrava che le bombe degli inglesi avessero voluto umiliare la città nei suoi scorci più belli. Sembrava avessero battuto palmo a palmo cercando di uccidere, terrorizzare, annichilire il più possibile.
Ovunque si respirava un acre puzza di bruciato, mista alla polvere dei calcinacci, al ferrigno odore di sangue. Nelle strade la gente si era riversata spaesata ed incredula, come risvegliatasi da un terribile incubo e mentre ci si guardava in faccia quasi per chiedersi conferma l’uno con l’altro, qualcuno aveva cominciato a scavare febbrilmente a mani nude tra le macerie della propria casa, gridando nomi, imprecando, piangendo. Erano soprattutto donne ed anziani e con loro frotte di bambini dallo sguardo asciutto di un’improvvisa vecchiaia. Altri arrivavano, accorrevano dalle case più periferiche, dagli uliveti dello sfollamento, a perdifiato verso i vicoli del centro. Si urlavano nomi, confusi ad animaleschi lamenti.
Passavano le prime ore e s’accendeva l’alba. I bambini finalmente cominciavano a piangere, ognuno nell’abbraccio di una madre, senza neppure chiedersi se era la propria.
Intorno alla città soldati italiani e tedeschi battevano il territorio alla ricerca di possibili paracadutisti. Si temeva un tentativo di invasione, la preparazione di uno sbarco. Forse ripensando a quel nero convoglio di navi che si era intravisto all’orizzonte la mattina precedente.
Quella notte era sembrata eterna e quando giunse stonato il bel sole di maggio illuminò ogni dettaglio di una città martoriata: in più punti, interi caseggiati si erano come sgretolati, decimando o cancellando intere famiglie. Per strada ciò che restava degli arredi, quelle poche cose strappate alle pietre, cumuli di stracci, davanti ai quali qualcuno sostava allucinato, raccontando di sé, chiedendo di altri, asciugandosi dal viso lacrime e sudore gelido. I primi soccorritori spaesati come i soccorsi, qualche livido rappresentante delle autorità, e ancora frotte di bambini ovunque. I feriti furono pochissimi, ma nei giorni e nei mesi a seguire il numero dei morti di quella notte crebbe, ritrovamento dopo ritrovamento, assenza dopo assenza, fino al centinaio ed erano soprattutto donne, giovani madri e i loro figli. Radio Londra disse che era stato attaccato un centro nevralgico dello schieramento nemico, si parlò dell’aeroporto, non dell’abitato, ma era stato solo l’ennesimo, insensato ed inutile massacro di innocenti o - se volete - più semplicemente, la guerra.
Un giovane sassarese, Arturo Usai, all’epoca segretario degli studenti universitari fascisti di Sassari, giunse dal capoluogo in città e armato di una macchina fotografica scatto le uniche 39 immagini che restano di quello scenario lunare. Fu certamente tra i primi a capire ciò che presto capirono tutti: da quella notte il volto di Alghero era mutato. Per sempre.


1. La stoffa azzurrina di quei paracadute servì nei mesi seguenti a cucire robuste e resistenti camice e persino abiti femminili.

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