giovedì 29 luglio 2010

Petrucci e Fertilia

Agli occhi di un critico d’arte l’architettura del ventennio fascista appare brutta; qualcuno potrebbe obiettare che ciò avvenga più per motivi ideologici che estetici, se è vero che da tempo, soprattutto all’estero, è iniziato un processo di riscoperta e rivalutazione di questo gusto architettonico e di coloro che ne furono i massimi interpreti (alcune opere di Terragni, come la casa del Fascio di Como, o di Libera e Piacentini sono state recentemente restaurate e sono diventate oggetti di studio e culto architettonico) e, come per un effetto domino, sembra ora ridestarsi l’interesse intorno ad un’altra corrente architettonica, quella di Concezio Petrucci, che cercava di mediare tra le innovazioni radicali del razionalismo ed un gusto più classico e tradizionalista. Dunque, se sugli edifici costruiti dagli architetti e dagli urbanisti del regime fra gli anni ’20 e ‘40 pesa un pregiudizio ideologico, figlio di una particolare stagione, diverso comunque deve essere il giudizio dello storico, che scevro da ogni posizione preconcetta, secondo un metro scientifico ed obiettivo, deve apprezzarne il valore di testimonianza di un’epoca.
Fertilia, una borgata del comune di Alghero in provincia di Sassari (Sardegna), forse ancora non incanta il critico d’arte, ma certo rappresenta un prezioso patrimonio monumentale, esempio tra i più nitidi di quell’architettura del ventennio fascista che progettò ed in parte realizzò "citta nuove" in due contesti regionali: il Lazio e la Sardegna. Nel Lazio vennero progettate ed edificate Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia e Pomezia; in Sardegna Carbonia, Cortoghiana, Sant’Antioco, Iglesias, Portoscuso, Arborea e Fertilia.
In particolare Fertilia fu un laboratorio, un progetto di città che poté svilupparsi, dall’ideazione all’edificazione, secondo quel gusto sostenuto dal RAMI (Raggruppamento Architetti Moderni Italiani) che come già detto intendeva conciliare la tradizione classica italica con l’innovazione razionalista del MIAR (Movimento Italiano Architettura Razionalista), cercando anch’esso nuove idee per creare un senso logico e al tempo stesso suggestivo fra la strada e la piazza, fra i palazzi e gli spazi vuoti, come De Chirico dipingeva e studiava sulle sue tele.
A più di mezzo secolo di distanza, del regime fascista, per fortuna, non resta nulla, ma sarebbe assurdo non riconoscere, alle testimonianze di ciò che fu la sua ambizione architettonica ed urbanistica, il senso sperimentale, il progetto di città, condivisibile o meno, ma certamente significativo.
Tra le “città nuove” firmate dagli architetti del Ventennio, Fertilia è una tra quelle che possono vantare una più massiccia sopravvivenza dei suoi edifici e del disegno originario.
Fertilia nacque legando il suo destino alla costituzione e all’opera dell’Ente Ferrarese di Colonizzazione, creato per dare lavoro ad un certo numero di famiglie provenienti dalla Bassa del Ferrarese (Polesine); fu edificata da una progettazione che in prima battuta fu affidata ad Arturo Miraglia nel 1935 e che trovò realizzazione definitiva, nel 1937 a firma dell’architetto Concezio Petrucci e dei suoi collaboratori: l’architetto Mario Tufaroli-Luciano, e gli ingegneri Emanuele Filiberto Paolini e Riccardo Silenzi del gruppo 2PST, firmatario anche di altri importanti progetti come Aprilia e Pomezia nel Lazio. Si attribuisce poi a Marcello Piacentini (architetto ufficiale del regime) la realizzazione del plastico e del piano della borgata, conservato per anni nella sala dell’ex cinema. Città nuova per uomini nuovi, utopia sociale e quindi architettura carica di ideologia e militanza, compromessa nell’azione di un regime che la storia condannerà in blocco.
Resta indiscutibile che le vestigia storiche, seppure d’epoca contemporanea, assumono un valore indipendentemente dalle ideologie o dai regimi che le hanno volute erigere ed è nostro dovere conservarle ai posteri, dovere che evidentemente è stato fino ad oggi malinteso da molti degli amministratori locali, dal comune alla regione, a giudicare dallo stato d’abbandono di molti edifici della borgata giuliana (non stupisca l’aggettivo poiché qui si parla ancora un dialetto d’origine giuliana per il massiccio popolamento di profughi istriani dopo l’ultimo conflitto mondiale).
A Fertilia oggi non c’è neppure una via intitolata all’architetto Petrucci che fu il padre degli edifici più importanti della borgata, forse perché qualcuno ritiene giusto cancellare la memoria di un uomo che lavorò per il regime mussoliniano. Poco importa evidentemente ciò che racconta di lui la sua storia personale, il suo coraggio di intessere un rapporto d’amore fino al matrimonio segreto sul finire degli anni trenta (in pieno vigore delle leggi razziali) con l’ebrea Hilde Brat, esule clandestina dalla Germania nazista, o il rifiuto di aderire alla Rsi (Repubblica Sociale Italiana), e poco importa che da più parti oggi si riconosca il suo valore d’architetto e l’interesse della sua opera.
Raffaele Sari Bozzolo

domenica 25 luglio 2010

DENTRO E FUORI


Dicono sia un poeta triste/ dicono sia un ragazzo allegro/ dicano ciò che vogliono/ le mie malinconie mi tengono compagnia/ e mi divertono/ le mie risate a volte mi bruciano/ come sale sulle ferite:/ io scrivo ciò che vedo/ dentro e fuori dai miei occhi./ Sono in verità un poeta allegro/ d’essere un ragazzo triste.

lunedì 19 luglio 2010

RESTI DI UN'ATTESA - Le fortificazioni della seconda guerra mondiale nel territorio di Alghero

di Raffaele Sari Bozzolo

Forse vi fu anche qui un tenente Giovanni Drogo ad attendere i tartari.
La possibilità di uno sbarco alleato in Sardegna fu al vaglio delle autorità militari dell’Asse fin dai primi anni della seconda guerra mondiale e - seppure con lo scetticismo di alcuni – l'ipotesi fu presa molto sul serio dagli alti comandi. In tal senso non posso esserci dubbi, se già nel 1941, quando ancora la guerra sembrava volgere a favore dei progetti del terzo Reich, sull'isola si costruivano, con grande attenzione ed un importante impiego di risorse, fortificazioni di ogni tipo diffuse lungo tutte la costa, in particolare intorno ai grandi golfi. Lo scenario che si prospettava come più probabile era un martellamento aereo di preparazione, una testa di ponte creata da truppe scelte paracadutate e a seguire uno sbarco in forze. Tra i possibili approdi spiccava la rada di Porto Conte.
Ancor più degli italiani, i tedeschi erano convinti che la Sardegna potesse rappresentare l’ideale testa di ponte per un eventuale massiccio sbarco nemico sul continente, o forse semplicemente la ritenevano una roccaforte naturale dalla quale organizzare un controllo del Mediterraneo. Hitler sembrava ossessionato da questa possibilità e forse era stato proprio Mussolini a suggestionarlo con una delle sue definizioni immaginifiche: «La Sardegna è la portaerei del Mediterraneo».
«Se sfondano il fronte africano, sbarcheranno in Sardegna e in Grecia, per chiuderci a tenaglia», andava ripetendo il fuhrer nelle riunioni con il suo Stato Maggiore. Tra i generali e gli strateghi nazisti l’ipotesi non trovava consensi unanimi, ma nessuno osava contraddire le visioni del fuhrer, neppure il suo alleato italiano; dunque già dal 1941 non si lesinarono investimenti per la costruzione di fortificazioni e bunker lungo le coste sarde; poi - man mano che le sorti della guerra sembrarono capovolgersi - con frenesia crescente, aumentò la corsa ad allestire un’accurata linea di difensiva, completando quanto il genio militare italiano e le ditte private locali avevano già eretto fin dal 1940 in ossequio alle direttive del Duce.
Dalla fine di aprile del ’43 l’eventualità dello sbarco sull’isola, fino ad allora ritenuta comunque remota e sottovalutata dallo Stato Maggiore italiano, prese decisamente consistenza per una brillante operazione di depistaggio che i servizi segreti inglesi avevano saputo ordire. Ai primi di maggio sull’isola scattò l’allerta. Lo sbarco poteva essere imminente. Bisogna attendersi un attacco congiunto dal mare e dal cielo. Si pronosticavano bombardamenti preparatori, lanci di paracaduti guastatori, movimenti di imponenti flotte.
Ormai si trattava di aspettare, poiché a quel punto non c’era più tempo per costruire nuove fortificazioni.
Hitler era compiaciuto che le sue previsioni strategiche avessero trovato conferma e contro il parere di alcuni suoi generali spostò le sue pedine, ordinando un poderoso trasferimento di uomini e mezzi dalla Sicilia alla Sardegna.
Iniziò allora la vana attesa del nostro tenente Drogo.
Oggi, sessantasette anni dopo la conclusione del conflitto mondiale, il comune di Alghero registra ancora nel suo territorio una folta ed interessante presenza di fortificazioni militari in buona parte in uno stato di conservazione ancora apprezzabile, anche se nel totale abbandono; un notevole richiamo per gli appassionati, una meta da raggiungere ed esplorare per i molti cultori dello studio dei ruderi militari dell’ultimo conflitto mondiale. Ecco le vestigia di questa storia. I resti di un’attesa.
A pochi chilometri dal centro abitato di Alghero, salendo verso Monte Dolla, un promontorio che spicca nella piana di aree coltivate, pascoli e pinete della Nurra, a metà del tortuoso percorso, giunti proprio all’ingresso di una folta e silenziosa pineta, ci si imbatte in alcuni edifici che ospitarono numerosi alloggi destinati alle truppe: si tratta di un complesso realizzato in tre sezioni distinte, una delle quali risulta isolata dalle altre due. Ne restano solo le murature, poiché i tetti in tegole su struttura in legno e tutti gli infissi, nel tempo, sono andati distrutti dagli agenti atmosferici o smantellati da chi ne ha riutilizzato i materiali.
Altri sette edifici identici a questi si trovano ai piedi del monte, disposti a schiera e strategicamente posizionati a pochi chilometri dall'aeroporto militare e dai più importanti accampamenti delle truppe. Le opere furono realizzate, come altre simili nel territorio, dalla ditta Ticca, probabilmente tra il 1940 e il 1942, biennio in cui il “Mom” (la manodopera militare) a seguito di una serie di circolari ministeriali, provvide ad un’intensa opera di edificazione e potenziamento delle fortificazioni e dei bunker lungo le coste.
A Monte Dolla, nelle vicinanze degli edifici adibiti ad alloggi vi erano le fortificazioni vere e proprie; ben mimetizzate e quasi invisibili persino da chi percorra la zona a piedi. La costruzione principale era sempre di forma rotonda, con una trincea coperta e sotterranea che correva lungo un’ampia circonferenza; il tutto era realizzato abbassando il livello del suolo di circa 150 cm. e ponendo al centro una colonna che doveva reggere anche una eventuale copertura mimetica aggiuntiva. La trincea aveva, ogni pochi metri, lungo tutto il perimetro dei cunicoli sotterranei, le "bocche di lupo" praticate nei soffitti, ossia delle strette aperture rettangolari, dalle quali - oltre ad entrare la luce - era possibile far spuntare le canne delle armi da fuoco.
Se guardiamo al resto del territorio, si segnalano molte costruzioni simili, ancora in gran parte intatte, lungo tutta la costa algherese e anche verso l’interno del territorio (strada per il Santuario di Valverde, strada per le miniere di Salondra, zona Sant'Anna, zona Carabuffas, zona San Giuliano, strada per Olmedo Sassari, strada per Capo Caccia e dorsali collinari limitrofe, Santa Maria La Palma, Lago di Baratz, ecc.) e qualche volta ci si imbatte in interessanti varianti costruttive, accomunate quasi sempre da intricate ramificazioni di trincee o gallerie sotterranee, ancora mimetizzate dalla vegetazione, e sempre con le temibili aperture per le mitraglie disposte a pochi metri l'una dall'altra. In taluni casi stupisce il perfetto integrarsi delle postazioni nelle peculiarità morfologiche e nella macchia mediterranea, l'invisibilità quasi totale nell’ambiente naturale, frutto probabilmente di intuizioni costruttive che oggi farebbero pensare a chissà quali studi precedenti alla fase di edificazione e che invece rendono merito alle capacità di adattamento e mimetizzazione degli oscuri progettisti del genio militare italo-tedesco. Le torri aragonesi e persino i nuraghe venivano recuperati, integrati o riprodotti nel profilo del territorio per nascondervi imprevedibili postazioni militari, nidi di mitraglia inespugnabili ed indistinguibili all'occhio del nemico. Persino le caratteristiche geologiche del territorio venivano abilmente asservite all'uso: un mirabile esempio è in parte ancora oggi visibile lungo il promontorio di Punta Giglio, dove - intorno ad una grande caserma di pietra calcarea si conserva un articolato sistema difensivo, perfettamente mimetizzato tra le rocce e la vegetazione spontanea, costituito da depositi per le armi e le munizioni, rifugi, piattaforme per antiaerea e batterie di ariglieria per la difesa costiera, il tutto spesso collegato da passaggi sotteranei che sfruttavano le molte caverne e gallerie naturali create dal carsismo della zona.
Proprio da qui, da queste fortificazioni ardite, a picco sul mare, il nostro tenente Drogo deve forse aver sognato, sperato o temuto di poter scorgere all’orizzonte, prima o poi, le nere sagome di una flotta di invasori. Quel giorno non arrivò mai ma a camminare fra quelle rovine, ancora oggi, il vento tra gli arbusti, il mare sulla scogliera, sembrano ancora sospesi in quell’infinita attesa.
In tutta la Nurra oggi risulta quasi impossibile un censimento dei fortini di calcestruzzo dalla caratteristica copertura globulare o dei piccoli bunker a parallelepipedo sparsi in ogni dove, non solo lungo la litoranea e lungo tutte le principali strade di comunicazione con l’interno, o su ogni costa di monte o collina che poteva offrire un luogo strategico e privilegiato per l’osservazione ed il controllo del territorio, ma persino in mezzo agli uliveti che circondano la città oggi come allora.
Le truppe germaniche erano accampate, insieme a reparti di fanteria italiana, alla periferia della città, nell’attuale area cimiteriale, ma erano pronte a controllare strategicamente il territorio in un’azione di difesa proprio con gli uomini che avrebbero dovuto presidiare alcuni di questi piccoli bunker; secondo le testimonianze dell’epoca molti di questi in realtà non furono mai utilizzati se non in occasione di esercitazioni.
Non si tratta certamente di capolavori architettonici né di reperti archeologici, ma testimoniano una storia recente, che spesso e a torto, si sente dire che da queste parti sia passata solo marginalmente.
Ecco, quei fortini raccontano di una storia, purtroppo ancora recente e che in certi luoghi del mondo non sembra poi neppure così trascorsa, ma anche di una drammatica e logorante attesa, di un orizzonte d’inquietudine e paure, mai affollato dai “tartari” ma che comunque non scampò alla gente di qui, nel suo epilogo, il sangue, la fame e la disperata confusione che la guerra mondiale portò sulla nostra povera patria; in quei ruderi militari oggi spesso pieni di immondizie resta ancora qualcosa della nostra memoria.
Credo che si dovrebbe prevedere un opera di tutela e conservazione di questi “mostri”, perché questi, ormai innocui, possono insegnare ai nostri figli più che cento lezioni di storia il volto freddo ed arcigno della guerra, l’angosciante militarizzazione di un pacifico paesaggio, trasmettendo una memoria collettiva appartenuta alla gioventù dei nostri padri, che assolutamente non va perduta.

domenica 18 luglio 2010

La notte del 17 maggio 1943. La controversa cronaca del bombardamento di Alghero.



Un crimine di guerra si consumò la notte di lunedì 17 maggio 1943. La notte di San Pasquale.
A 67 anni da quella data, ancora sembra non essere giunto il momento di riconoscere alle vittime di quell’azione il diritto di ottenere giustizia e una più corretta memoria storica. Basterebbe la verità. Se si legge la cronaca di quel giorno si intuisce che vi fu chi da subito lavorò per mescolare le carte, depistare, nascondere. Come spiegare diversamente le domande su quella disgraziata notte di maggio rimaste fino ad oggi senza una risposta? Perché bombardarono il centro abitato? Chi e come avvertì la popolazione dell’imminente tragedia? Quali furono le reali dimensioni della strage e vi fu casualità o calcolo nel generarle?
Giungeva una notte di luna piena, una calda notte di rigoglioso maggio a conclusione di una giornata di sole e cielo terso, tra le più calde di quella primavera tanto attesa dopo un rigidissimo e lungo inverno. La guerra viveva il suo anno più tragico e violento; le ristrettezze si erano fatte sentire su tutti gli strati sociali e in molti pativano da mesi fame e stenti inimmaginabili. La povertà s’era diffusa come una pestilenza ed i volti di molti algheresi, uomini e donne, bambini ed adulti, ne erano segnati. Eppure quella radiosa e profumata primavera aveva riacceso speranze e forze. Le campagne intorno alla città erano una distesa di gialli agrets e il mare, da giorni calmo come un’olla sembrava offrirsi come uno specchio ad una bella e vanitosa donna. Molti bambini non andavano più a scuola e per le strade i loro giochi e i loro allegri schiamazzi sembravano davvero far credere che il peggio fosse passato. Le signorine in età da marito s’adornavano con nulla e riassestavano i vecchi vestiti perché anche in guerra la primavera richiamava ostinata ai riti del corteggiamento.
Giungeva così una notte che avrebbe potuto promettere tepore e tranquillità, eppure da molti era vissuta con un senso d’angosciosa attesa e sospensione.
Secondo alcuni, vi furono sinistri presagi già al tramonto, quando sull’orizzonte si potè distinguere “una lunga fila di nere navi da guerra”. I più informati rassicurarono che era un convoglio italiano. Ma altre voci avevano agitato la popolazione, sin dalle prime ore del mattino; infatti diverse testimonianze avvalorano la tesi che durante quella giornata, già molte ore prima, si fosse sparsa la voce di un possibile bombardamento; dopo tanti falsi allarmi, qualcuno avrebbe anticipato a parenti e amici che quella data sarebbe stata fatidica per la città.
Certo è che all’alba di quel giorno tanti algheresi abbandonarono le loro abitazioni per sfollare nelle campagne circostanti o addirittura nei paesi dell’interno. In verità quel pellegrinaggio era cominciato da diverse settimane, ma il 17 maggio lungo le strade che portavano a Carrabuffas o verso Villanova c’erano file di carretti che trasportavano materassi, mobili, quadri e tutto ciò che evidentemente si voleva salvare insieme con la propria famiglia. Improvvisamente si era sparsa una gran frenesia e la certezza che la notte fatale stava per giungere. Chi aveva diffuso la notizia? Secondo taluni, sarebbero state alcune donne, di ritorno da un forno cittadino, a far circolare concitatamente la voce dandola come certa spingendo molti, fino ad allora ancora indecisi, a raccogliere famiglia, indumenti e vettovaglie e a trasferirsi in fretta e furia lontano dalla città. Altre testimonianze riportano come fonte della notizia gli ambienti militari e in particolari alcuni soldati ed alcuni impiegati civili dell’aeroporto militare. C’è stato persino chi ha parlato di un volantinaggio di avvertimento degli anglo-americani avvenuto nei giorni precedenti, ma non si è mai trovata traccia di neppure un lembo di quei volantini. Dove sarebbe avvenuto? Presso l’aeroporto, secondo alcuni (questo spiegherebbe la fonte militare della notizia); altri ricordano il presunto volantinaggio diffuso sulla città da “Pippo”, il piccolo ricognitore inglese che gli algheresi vedevano da settimane, quasi quotidianamente, attraversare lento il loro cielo. Sui volantini, secondo queste testimonianze ci sarebbe stato l’invito ad evacuare la città e persino l’orario del bombardamento: dalle 22.30 alle 24.00. I ricordi sono però discordanti anche sulla data: proprio la notte di San Pasquale secondo alcuni; una data precedente - che si rivelò un bluff - secondo altri.
Queste testimonianze orali sono troppo discordanti e confuse e quindi purtroppo restano racconti più o meno fantasiosi e dovranno essere considerati tali finché non se ne troverà prova tangibile.
Fino ad allora l’unica verità plausibile sarà che Alghero venne bombardata senza nessun preavviso né ufficioso o clandestino né propagandistico. La propaganda semmai avvenne dopo, nel confondere ad arte queste notizie, magari per diffamare gli antifascisti o alleviare le responsabilità di chi perpetrò un simile insensato massacro, poiché poco importa sapere se davvero ci fu chi seppe per tempo; interessa semmai stabilire quali furono i motivi strategici, quale la logica militare che giustificò una simile barbarie.
Certo fa effetto l’osservazione che mi fece un testimone di quella notte: «Era tutta povera gente. I signori se n’erano andati da un pezzo».
Scorrendo l’elenco ufficiale dei morti non vi è neppure un nobile, neppure un signore dell’alta borghesia cittadina. Come potè accadere se il bombardamento fu indiscriminato, a macchia di leopardo su tutta la cittadina?
A dire il vero neppure un palazzo nobiliare, fra quelli che sorgono nel centro storico, fu abbattuto dalle bombe; crollarono quasi esclusivamente caseggiati popolari. Un’altra beffa del destino.
L’insensata violenza di chi stava pianificando i raid aerei sulla Sardegna era già stata testimoniata dall’attacco che alcuni giorni prima aveva massacrato alcuni pescatori nella rada di Porto Conte al termine di un raid sull’aeroporto militare o che mesi prima, a Febbraio, si era inspiegabilmente scatenato sull’innocuo e inerme paesino di Gonnosfanadiga provocando diverse decine di vittime, prevalentemente donne e bambini.
Quattro giorni prima di quella notte, a Cagliari un bombardamento notturno inglese aveva sganciato 893 bombe sul centro abitato colpendo oltre a centinaia di abitazioni, ospedali, chiese, infrastrutture civili. La strage si ergeva a metodo.
Nel tentativo di spiegare le ragioni del bombardamento della notte di San Pasquale, alcuni hanno avanzato giustificazioni che presentano Alghero come un obiettivo strategico di grande importanza militare sottoposto quindi ad una normale azione di guerra. Fandonie. I veri obiettivi erano ben distanti dall’abitato: l’aeroporto di Fertilia (più volte pesantemente colpito, prima e dopo il 17 maggio del 1943), la rada di Porto Conte (che però non ospitava in quei giorni nessuna significativa unità della marina italo-tedesca), gli alloggiamenti e le fortificazioni militari lungo le pendici di Monte Doglia e a Punta Giglio, l’accampamento della truppa italo-tedesca nella zona del cimitero.
Le stalle militari, le batterie contraeree sulle torri della Muraglia, da sole non potevano giustificare la necessità di un così massiccio attacco aereo e - anche se allora non si parlava ancora di tecniche di bombardamento di chirurgica precisione – la bassa quota dell’incursione non poteva giustificare errori così macroscopici. Dunque nessun errore fu compiuto.
La verità è che da tempo gli anglo-americani avevano dato il via ad una strategia bellica più sanguinaria e spietata, che prevedeva il bombardamento di obiettivi civili con lo scopo di fiaccare il morale del nemico creando sconforto e rassegnazione nella popolazione, demolendo qualunque residuo consenso al regime.
In questa strategia, avevano un ruolo crescente, per il grande impatto emotivo e psicologico, i bombardamenti notturni sui centri abitati, specialità inglese che proprio quella notte venne mostrata al generale americano James H. Doolittle, seduto, come secondo pilota, a bordo di un Wellington Mark III, affianco al comandante Matthewman, squadron leader dell’operazione.
Il bombardamento fu “appesantito” dalla presenza di un’importante e ambizioso generale americano, momentaneamente impegnato in un teatro di guerra di secondaria importanza? Lo scempio gratuito sugli obiettivi civili fu il frutto di un eccesso di zelo di un ufficiale inglese che voleva facilmente arricchire il suo già ricco curriculum proprio sotto gli occhi di un suo illustre superiore e preferì ripiegare sulla città piuttosto che sull’aeroporto di Fertilia, dove avrebbe incontrato la resistenza di una più efficace contraerea? Si trattò forse di un’azione “didattica” a scopo di aggiornamento per il generale Doolittle ansioso di verificare dal vero la tecnica del bombardamento notturno? Fu lui stesso a richiederla?
Certo è che non fu un atto inconsapevolmente crudele, se lo stesso Matthewman non ne fece più menzione fra le sue memorie, ricordandosi dell’incursione sull’aeroporto di Fertilia ma dimenticandosi, guarda a caso, del lungo bombardamento del centro abitato di Alghero.
Certi dubbi e certe considerazioni possono farci propendere verso l’ipotesi di un’azione più devastante del previsto, ma non negano che si trattasse di qualcosa di programmato ed inserito in una strategia più ampia e criminale perpetrata ai danni della popolazione civile, come dimostrano altri bombardamenti su centri abitati avvenuti nello stesso periodo bellico e dunque responsabilità dei massimi vertici anglo-americani.
La limpida notte di luna piena e i razzi luminosi, che scendevano lenti verso il suolo frenati ciascuno da un paracadute azzurrino, avevano mostrato chiaramente gli obiettivi ai bombardieri, che probabilmente scesero anche a quote relativamente basse (1). Molti ricordano di aver distinto a pochi metri dai tetti i velivoli con i tre cerchi concentrici della RAF, che lanciavano le loro bombe e mitragliavano alla cieca: colpirono dunque deliberatamente l’ospedale, l’episcopio e le chiese (dove, sapevano, era uso si rifugiassero molti fedeli), insistendo su queste ultime come fossero obbiettivi militari. Sorvolarono più volte il centro abitato, infierendo su punti di fitta edificazione (le principali ferite sono ancora oggi riconoscibili nelle piazzette aperte dai crolli lungo via Roma e corso Carlo Alberto, già allora le vie principali del nostro inurbamento); colpirono solo marginalmente e quasi casualmente la periferia. Studiando la cartografia dei punti dove colpirono le bombe, è evidente l’intenzione di creare i danni più vistosi e fare il più alto numero di vittime.
Vi è un’altra “leggenda” significativa, che ricorre nei racconti dei vecchi reduci: quella delle croci. Taluni hanno raccontato che oltre alla grande croce rossa sul tetto dell’ospedale, aumentando il timore di un ormai imminente bombardamento, fossero fiorite altre croci simili ma “abusive” su molti altri tetti, persino su quelli del “quartiere” dietro San Michele dove aveva alloggio una guarnigione di fanteria. Ma anche questa è più una barzelletta o una gustosa storiella che vorrebbe giustificare l’indiscriminato accanimento delle bombe inglesi, disorientate dalla malizia delle finte croci che si era infine ritorta contro la popolazione innocente e contro quegli edifici che si sarebbe potuto risparmiare. La sleale furbizia di alcuni giustificherebbe così gli “errori” o la crudeltà dei liberatori.
Dopo tante voci e memorie, vere e false, resta la cronaca dei fatti alla quale torniamo.
Il rombo degli aerei giunse sull’obbiettivo alle 22,53 e si allontanò definitivamente dopo quarantatre minuti di fragori ed esplosioni, inframmezzati solo da brevi pause: il tempo di pregare.
I temuti bombardieri notturni inglesi Wickers Wellington, dei 142° e 150° squadroni RAF, si erano levati in volo da Fontaine Chaud in Algeria verso le 20.30; provenivano dalla campagna d’Africa e infatti erano “tropicalizzati”, avevano cioè la carena e le ali mimetizzate con colori sabbia, marrone e verde e procedevano, in ordine sparso o in piccole formazioni, preceduti dagli aerei guida pathfinders che avevano il compito di illuminare gli obiettivi con bengala al magnesio.
La possibilità che in formazione vi fossero anche un certo numero di P.38 americani, particolarmente accaniti nel lavoro sporco di mitragliamento delle strade, sarebbe anche plausibile visto che questi bombardieri normalmente viaggiavano scortati dai caccia e considerato che in molti testimoniano d’aver distinto, fra le esplosioni ed i rombi degli aerei nemici, l’incessante sferzare delle mitraglie, ma il fatto che l’operazione sia avvenuta di notte ci permette di comprendere queste memorie fra i falsi involontari che negli anni possono crearsi con il sovrapporsi dei ricordi: i P.38 mitragliarono a più riprese Alghero e certamente pochi giorni dopo il bombardamento vi fu un violento “spezzonamento”, ma diurno e senza la contemporanea presenza dei Wellington.
Dapprima gli aggressori giunsero sull’aeroporto. Qui le versioni sono discordanti. Secondo i rapporti inglesi fu un obiettivo piuttosto facile, al punto che i bombardieri scesero a “tale bassa quota che le mitragliatrici degli aerei spararono sull’obiettivo e contro le luci di posizione dell’aerodromo” e naturalmente senza subire alcuna perdita inflissero notevoli danni alla struttura e agli aeroplani italo-tedeschi a terra, in pista e negli hangars. Secondo le testimonianze di alcuni militari e civili di servizio all’aeroporto, invece, l’attacco non fu dei più riusciti. La contraerea da Monte Doglia era stata reattiva e dalla pista si erano persino levati in volo veivoli a contrasto delle formazioni inglesi; il tutto avrebbe quindi convinto i bombardieri ad un rapido ripiegamento sul centro abitato. Fino ad oggi è stato impossibile accertare la veridicità di una delle due versioni, ma quel che è certo è che le minacciose sagome dei bombardieri inglesi, poco dopo, giunsero su Alghero. Proprio da alcuni impiegati all’aeroporto viene la testimonianza più interessante circa la presenza dei caccia nella formazione d’attacco di quella notte. Molti fra loro si sono detti certi di ricordare l’inconfondibile fusoliera a due code dei P.38.
Gli adetti agli aerofoni, le apparecchiature per l’ascolto dei cieli a sentinella della città dalla torre di Porta Terra, avevano segnalato per tempo, i motori degli aerei nemici in avvicinamento e le sirene d’allarme avevano suonato già da qualche minuto quando le formazioni dei bombardieri avevano fatto la loro lugubre comparsa. Gli algheresi avevano raggiunto i rifugi, si erano ammassati nei sottani, si erano radunati in chiesa, oppure erano rimasti immobili, pietrificati dal terrore, nella loro abitazione.
Dalla torre di Sant’Elmo e da quella di San Giacomo, dove erano disloccate le mitragliere per la difesa antiaerea, si era attivata una qualche reazione, ma quasi subito le armi s’incepparono e le postazioni vennero abbandonate; gli aerei poi inizialmente erano ancora alti e i pochi traccianti ne svelavano appena le sagome; si udiva ovunque il loro sordo rombo, sembrava la voce cavernosa di un demonio che saliva dalle viscere della terra, invece veniva dal cielo. Forse le bombe cercarono di colpire l’ottogonale torre di San Giacomo, anche se ormai la mitragliera taceva, ma schiantarono un palazzo di fronte alla chiesa della Misericordia, poi più in là un altro davanti a San Michele, poi ancora uno a lato del ginnasio e ancora uno tra vicolo Buragna e corso Carlo Alberto. Presto da tutto l’abitato si udirono nuove esplosioni, nuovi fragorosi crolli: dalla zona intorno all’ospedale, dalla cattedrale di Santa Maria, da via Roma.
Dalla banchina della Sanità, al porto, un MAS che si trovava lì all’ormeggio, ora che gli aerei erano spavaldamente scesi a bassa quota, iniziò coraggiosamente a sparare contro i nemici con la mitragliera di bordo e registrò un abbattimento mai confermato dai rapporti degli inglesi ma forse comprovato da certi rottami recuperati a distanza di anni sulla spiaggia di Sant’Imbenia.
Chi non era corso nei rifugi, si era nascosto sotto i tavoli, era corso in strada, era rimasto paralizzato dove si trovava, abbracciava i figli e pregava. Il rombo, le grida, i lampi ed i mostruosi ruggiti dei palazzi che si sbriciolavano, accasciandosi su se stessi, sembravano non finire mai; ad ogni pausa, ad ogni illusoria conclusione seguiva una ripresa che sembrava ancor più violenta. Ad ondate successive alcuni velivoli calavano in picchiata sull’abitato e mitragliavano.
Dalle campagne circostanti i molti sfollati assistevano increduli a quell’allucinante visione. Come torme di fameliche Arpie, le sagome dei veivoli inglesi sorvolavano la città incrociando le loro rotte e ritornando più volte sugli obiettivi; il fischio continuo ed ossessionante dell’aria ferita dalle bombe, il frastuono delle esplosioni, il cupo fragore dei crolli e le nuvole di polvere bianca che si levano nel cielo illuminate dalla luce gialla dei bengala, offrivano un profilo mai visto della nostra città.
Gli sfollati cercavano di capire dove erano cadute le bombe, dove crollavano i palazzi, spettatori impotenti di un massacro, di un’orda barbarica che distruggeva il loro piccolo mondo.
Finito finalmente lo strazio, le luci della città erano rimaste spente, ma lo splendore della luna fu impietoso e rivelò da subito ai sopravvissuti il terribile scempio.
Erano stati colpiti 3157 metri quadrati di superficie edificata. Le abitazioni distrutte o rese inagibili erano almeno 500. Cominciava subito il penoso conto dei morti. Secondo alcuni dati ufficiali rilevati dai registri cimiteriali nei giorni immediatamente successivi, furono dapprima computate 54 vittime. Ma il dato non fu reso pubblico. Al contrario i radio giornali fornirono cifre assai inferiori nel tentativo di ridimensionare l’accaduto. A distanza di anni, il computo dei caduti è salito, ed è ormai prossimo a 110. Forse però non siamo ancora giunti alla verità, poiché - a suo tempo - il poeta Carmen Dore, figlio di impiegati comunali, affermò di aver appreso proprio da questi un numero assai maggiore di morti: oltre 160.
La discordanza di queste cifre non dipese però solo dalla censura e dalla propaganda, istituti ormai deboli come il regime che li aveva instaurati ma più semplicemente dal fatto che molti corpi vennero ritrovati giorni, addirittura mesi dopo, finendo poi sepolti e registrati senza più la dicitura di vittima del bombardamento.
Al di là d’ogni cifra, il senso della strage emerge dalla prima cosa che si può notare scorrendo l’elenco dei morti: erano per la maggior parte donne e bambini, madri e figli.
Dati accettati e per certi versi curiosi furono che il numero dei feriti, in proporzione, fu piuttosto contenuto e che la maggior parte delle vittime risultarono morte per soffocamento anche e soprattutto a causa della fine polvere sprigionata dagli intonaci sbriciolati dai crolli e dalle esplosioni.
Tra le macerie, alle prime luci dell’alba, il vescovo monsignor Ciucchini, che non aveva voluto abbandonare la sua abitazione, fu tra i primi a percorrere le vie della città, a soffermarsi in raccoglimento di fronte ai cumuli di macerie, a portare una parola di conforto ai sopravvissuti, a cercare di offrire anche il primo aiuto concreto.
Nei giorni successivi Alghero si spopolò: per mesi e mesi restarono in città quasi solo le forze dell’ordine. La gente fuggiva per paura che potesse riaccadere qualcosa di simile, ma anche per non vedere più quel tetro scenario da incubo, che sfregiava il volto della città.
Le zone più colpite erano infatti alcuni dei luoghi più cari alla quotidianità degli algheresi: l’Ospedale ed i bastioni, la Cattedrale, via Carlo Alberto, via Roma, via Principe Umberto, il lungomare Dante e via Vittorio Emmanuele.
Sembrava che le bombe degli inglesi avessero voluto umiliare la città nei suoi scorci più belli. Sembrava avessero battuto palmo a palmo cercando di uccidere, terrorizzare, annichilire il più possibile.
Ovunque si respirava un acre puzza di bruciato, mista alla polvere dei calcinacci, al ferrigno odore di sangue. Nelle strade la gente si era riversata spaesata ed incredula, come risvegliatasi da un terribile incubo e mentre ci si guardava in faccia quasi per chiedersi conferma l’uno con l’altro, qualcuno aveva cominciato a scavare febbrilmente a mani nude tra le macerie della propria casa, gridando nomi, imprecando, piangendo. Erano soprattutto donne ed anziani e con loro frotte di bambini dallo sguardo asciutto di un’improvvisa vecchiaia. Altri arrivavano, accorrevano dalle case più periferiche, dagli uliveti dello sfollamento, a perdifiato verso i vicoli del centro. Si urlavano nomi, confusi ad animaleschi lamenti.
Passavano le prime ore e s’accendeva l’alba. I bambini finalmente cominciavano a piangere, ognuno nell’abbraccio di una madre, senza neppure chiedersi se era la propria.
Intorno alla città soldati italiani e tedeschi battevano il territorio alla ricerca di possibili paracadutisti. Si temeva un tentativo di invasione, la preparazione di uno sbarco. Forse ripensando a quel nero convoglio di navi che si era intravisto all’orizzonte la mattina precedente.
Quella notte era sembrata eterna e quando giunse stonato il bel sole di maggio illuminò ogni dettaglio di una città martoriata: in più punti, interi caseggiati si erano come sgretolati, decimando o cancellando intere famiglie. Per strada ciò che restava degli arredi, quelle poche cose strappate alle pietre, cumuli di stracci, davanti ai quali qualcuno sostava allucinato, raccontando di sé, chiedendo di altri, asciugandosi dal viso lacrime e sudore gelido. I primi soccorritori spaesati come i soccorsi, qualche livido rappresentante delle autorità, e ancora frotte di bambini ovunque. I feriti furono pochissimi, ma nei giorni e nei mesi a seguire il numero dei morti di quella notte crebbe, ritrovamento dopo ritrovamento, assenza dopo assenza, fino al centinaio ed erano soprattutto donne, giovani madri e i loro figli. Radio Londra disse che era stato attaccato un centro nevralgico dello schieramento nemico, si parlò dell’aeroporto, non dell’abitato, ma era stato solo l’ennesimo, insensato ed inutile massacro di innocenti o - se volete - più semplicemente, la guerra.
Un giovane sassarese, Arturo Usai, all’epoca segretario degli studenti universitari fascisti di Sassari, giunse dal capoluogo in città e armato di una macchina fotografica scatto le uniche 39 immagini che restano di quello scenario lunare. Fu certamente tra i primi a capire ciò che presto capirono tutti: da quella notte il volto di Alghero era mutato. Per sempre.


1. La stoffa azzurrina di quei paracadute servì nei mesi seguenti a cucire robuste e resistenti camice e persino abiti femminili.

Appunti garibaldini. Garibaldi, Alghero e la Massoneria



Dai documenti consultati presso l’Archivio Storico Comunale di Alghero e la Colleció privada Mellai emergono alcuni nomi di patrioti locali, che agli ordini di Giuseppe Garibaldi, affrontarono diverse campagne di guerra nella drammatica ed eroica stagione del Risorgimento italiano; fra questi spiccano quello del dott. Carlo Fornari e quello di Andrea Dalerci (quest’ultimo era un fedelissimo tamburino!)
Il sindaco di Alghero, all’epoca della rapida visita dell’Eroe nell’estate del 1855, era Giovanni Battista Garibaldi, un suo cugino, appartenente ad una delle famiglie più influenti della città; ma il legame tra l’allora sindaco di Alghero e il Generale andava oltre una parentela tra cugini, li legava infatti un’altra fratellanza forte e profonda, la fratellanza che li univa agli ideali della Libera Muratoria.
L’Eroe dei due Mondi era stato iniziato alla massoneria dieci anni prima, nel 1844, all'età di trentasette anni, nella loggia L'Asil de la Vertud di Montevideo, una loggia irregolare, emanazione della massoneria brasiliana, non riconosciuta dalle principali obbedienze massoniche internazionali, quali erano la Gran Loggia d'Inghilterra e il Grande Oriente di Francia. Sempre nel corso del 1844, il 24 agosto, egli aveva tuttavia regolarizzato la sua posizione presso la loggia Les Amis de la Patrie di Montevideo posta all'obbedienza del Grande Oriente di Parigi.
Soltanto nel giugno 1860, nella Palermo appena conquistata, Garibaldi venne elevato al grado di maestro massone. Il ricostituito Grande Oriente Italiano, inizialmente dominato da esponenti vicini a Cavour, affidò però la carica di gran maestro a Costantino Nigra e conferì a Garibaldi soltanto il titolo onorifico di «primo libero muratore italiano», gratificandolo di una medaglia commemorativa di oro massiccio.Quando Costantino Nigra rassegnò le dimissioni da gran maestro e un’assemblea straordinaria fu chiamata a eleggere il suo successore, il prescelto risultò Filippo Cordova, già ministro di Cavour, che prevalse su Garibaldi con 15 voti contro 13. Era il 1° marzo 1862. Pochi giorni dopo il Supremo Consiglio del Rito Scozzese di Palermo, luogo di raccolta di massoni italiani di fede repubblicana e radicale, decise di sottolineare la propria autonomia rispetto a Torino e conferì a Garibaldi, insignito da Crispi dei gradi scozzesi dal 4° al 33°, il titolo di gran maestro. Sempre nel 1862 e sempre in Sicilia Garibaldi “presenziò all'iniziazione di suo figlio Menotti (il 1 luglio) e firmò egli stesso (il 3 luglio) la proposta di affiliazione dell'intero suo stato maggiore.Nel 1867, dopo aver ascoltato l'appello di Garibaldi all'unità massonica ed aver dichiarato di ritenere i massoni “eletta porzione del popolo italiano”, la Costituente Massonica di Napoli lo eleggerà Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d'Italia.
La prima vera Costituente massonica italiana si tenne a Firenze nel maggio 1864 con la partecipazione di 72 delegati ed elesse proprio Garibaldi, a larghissima maggioranza, come nuovo gran maestro; carica che mantenne per pochissimi mesi.
Nel giugno 1867, pur conservando la carica di gran maestro del Consiglio scozzesista palermitano, “l’eroe dei due mondi” accettò la nomina a gran maestro onorario del Grande Oriente d’Italia che gli venne conferita dalla Costituente massonica di Napoli. Dopo la morte di Garibaldi la Massoneria fu tra le forze politiche e sociali italiane quella che più di altre si incaricò di conservarne la memoria e di alimentarne il mito. Nel momento in cui le classi dirigenti del paese stavano profondendo le maggiori energie per costruire un paradigma identitario nel quale l’intera nazione potesse riconoscersi, la morte dell’eroe popolare per eccellenza mise a disposizione un riferimento simbolico prezioso, capace di affiancare e rafforzare l’ormai insufficiente e sbiadita immagine dinastica. Specialmente negli anni di Crispi, intorno alla figura di Garibaldi si cercò di costruire una religione civile imperniata sul mito laico del Risorgimento, e la Massoneria, all’epoca sotto la guida di Adriano Lemmi, ebbe un ruolo notevolissimo nel favorire la riuscita dell’operazione. Garibaldi fu il nome di gran lunga più diffuso fra quelli dati alle logge della penisola o alle logge italiane d’oltremare (in America Latina, in Africa del Nord, ecc.); altre denominazioni, come Caprera, Luce di Caprera, Leone di Caprera, erano ispirate dalla medesima volontà di rendere omaggio all’eroe nizzardo. La Massoneria promosse inoltre innumerevoli cerimonie, commemorazioni, inaugurazioni di lapidi e monumenti alla memoria di Garibaldi. La più importante di queste iniziative fu l’inaugurazione a Roma del monumento sul Gianicolo, che si tenne emblematicamente il 20 settembre 1895, nel venticinquesimo anniversario di Porta Pia, e vide il massone e capo del governo Francesco Crispi enfatizzare il contributo dato dalle forze laiche e popolari al Risorgimento. Ad Alghero vi sono due targhe che commemorano il passaggio di Giuseppe Garibaldi: una targa marmorea pubblica posta sulla torre antistante il porto, chiamata appunto "torre Garibaldi" . Secondo una tradizione orale, che purtroppo non è suffragata da alcuna documentazione, l'eroe avrebbe pernottato in città, ospite in un locale a metà di via Cavour, lo stesso che una ventina d'anni dopo divenne sede, fino ai giorni nostri, della Società Operaia di Mutuo Soccorso.
Dunque sia la targa sulla torre, sia il presunto luogo del pernottamento, ci rimandano all’unica occasione in cui l’”Eroe dei due mondi” calcò il suolo algherese. Ricostruiamone la cronaca.
Giuseppe Garibaldi, al comando del piroscafo “San Salvatore”, salpato da Genova (1), giunse ad Alghero il 14 agosto 1855, accompagnato dai figli Menotti e Ricciotti, mentre in città era in corso una drammatica epidemia di colera che causò la morte di migliaia di persone; secondo alcuni la ragione del suo viaggio sarebbe stata proprio la volontà di trarre in salvo alcuni suoi parenti che vivevano qui, tra i quali proprio quel già citato sindaco Giovanni Battista Garibaldi, suo cugino e “fratello” massone. Sembra che sull’imbarcazione, che ripartì all’indomani per fare ritorno a Genova, trovarono posto le famiglie Costa, Bolasco, Piccinelli, Peretti e naturalmente Garibaldi, tutte in qualche modo imparentate o legate da affetti ed ideali con “l’eroe dei due mondi” e tutte, manco a dirlo, con loro illustri componenti nelle fila della massoneria locale. Dette famiglie erano state promotrici e finanziatrici di tale spedizione di salvataggio, ordinando di fatto il piroscafo e finanziandone tutte le spese. Garibaldi aveva probabilmente accettato o persino voluto guidare personalmente lo scafo per procacciarsi future donazioni e riconoscenze utili alle sue imprese militari, fra le quali, da lì a poco, l’impresa dei Mille.
Non a caso nell’archivio storico comunale è conservata una lettera autografa che anni dopo il Generale inviò al Sindaco di Alghero per chiedergli di estendere le sue lodi e la sua riconoscenza ai molti che in città avevano voluto sostenere la lotta per l’indipendenza e l’unità della Patria.
Tornando alla visita lampo di Garibaldi in quell’estate 1855, secondo alcuni, coincise solo fortuitamente con l’epidemia di colera, poiché egli avrebbe semplicemente colto l’occasione per un ben diverso e segreto motivo: una specie di missione diplomatica per mettere fine a certe vivaci discordie scoppiate in seno alla massoneria algherese. Quest’ultima ipotesi è tanto diffusa da essere data per certa fra le note storiche dei cartelli bronzei recentemente posti a descrizione dei principali monumenti cittadini; ma di questo secondo fine non ne resta traccia in nessun documento e dobbiamo credere tragga origine da un passa parola proveniente proprio dalla tradizione delle logge locali.
All’epoca la massoneria era già presente ad Alghero con varie associazioni filantropiche e la già citata loggia l’”Antro di Nettuno”; sciolta questa, forse si fondò la documentata loggia “Giuseppe Dolfi” dalla quale anni dopo si originò anche la “Fratellanza Artigiana” (1870) della quale risulterà primo segretario tale Antonio Garibaldi, a sottolineare una volta di più, l’allora indissolubile legame tra la massoneria locale e i Garibaldi. In seguito in città sorse anche una loggia intitolata proprio a Giuseppe Garibaldi.
La famiglia Garibaldi viveva nel palazzo che sovrasta Porto Salve e questo edificio restò tradizionalmente caro ai liberi muratori e agli anti clericali, tanto che molti di essi, nella prima metà del ‘900, affiliati all’associazione anticlericale “Giordano Bruno” entrando in piazza Civica dal porto o facendo il percorso inverso, giunti lì sotto, si toglievano il cappello in segno di rispettoso omaggio, destando la curiosità di chi – come Michele Chessa in “Racconti algheresi” – credeva fosse il segno di una strana e contraddittoria devozione alla madonna dei pescatori che è ospitata in una nicchia di quello stesso passaggio. Sul lato sinistro di chi passa dalla piazza al porto attraverso questo passaggio, c’era una stalla dove venivano conservati i cavalli ed un elegante e barocco carro funebre che veniva utilizzato per accompagnare verso “l’eterno Oriente” i massoni defunti.
In verità, nella nostra città, vi sono altre tracce che ci riportano ai personaggi e agli ideali dell’epopea garibaldina; ad esempio, la famiglia Zoagli, d’antica nobiltà genovese, ma di forte radicamento algherese (da quando un Agostino Zoagli vi si trasferì in veste di amministratore dei beni dell’ammiraglio tedesco Von Tirpiz), vanta diretta discendenza da quella Adelaide Zoagli Mameli madre di Goffredo Mameli, eroe garibaldino caduto a soli 22 anni nella battaglia del Gianicolo e firmatario dell’Inno d’Italia. In virtù di questa parentela la famiglia Zoagli conserva ancora oggi alcuni cimeli dello stesso sfortunato Goffredo.
Difficile poi catalogare le molte lettere ed i biglietti autografi dello stesso Giuseppe Garibaldi che fanno “riservato” lustro negli archivi di alcune famiglie locali o il notevole numero dipinti e ritratti (su tela, a carboncino, a ricamo) dedicati all’”Eroe dei due mondi”, che qui possiamo ritrovare sempre tra i beni e le collezioni di privati.


Raffaele Sari Bozzolo



1. Salpato da Genova e non da Caprera, come erroneamente riportano alcuni storici locali; infatti Garibaldi acquistò una parte dell’isola dell’arcipelago maddalenino solo tre mesi dopo, nel novembre del 1855; inoltre un libretto marittimo di matricolazione di Garibaldi – esposto al Museo del Risorgimento Italiano a Milano - risulta a lui rilasciato a Genova proprio il giorno prima del suo arrivo ad Alghero, il 13 agosto 1855.
IL MIO RIFUGIO

Te lo giuro/ se mai cercassi un rifugio sicuro/ per i miei esili figli d'inchiostro,/ se mai cercassi un giardino/ per i miei ospiti selvaggi/ lo cercherei a ritroso/ lungo tutte le notti trascorse/ per ritrovare quel giorno perduto/ e quel luogo intatto/ dove mi fermai/ a guardare nei tuoi occhi,/ Ninfa dei miei boschi cupi/perché lì non avrei paura/ di nessun dolore/ e non servirebbe più/ neppure sognare. perché lì non avrei paura/ di nessun dolore/ e non servirebbe più/ neppure sognare.perché lì non avrei paura/ di nessun dolore/ e non servirebbe più/ neppure sognare.perché lì non avrei paura/ di nessun dolore/ e non servirebbe più/ neppure sognare.
CI CERCHEREMO SEMPRE

Che importa del tramonto,/ della fine della festa,/ della partenza, del buio e del silenzio?/ Non temere,/ ci cercheremo sempre./ Lascia pure che corra il cielo,/ lascia che corra la strada,/ che scorra anche tutto il nostro tempo./ Vedrai,/ pioveremo insieme su questo mare/ pioveremo insieme su questa terra,/ su queste foglie, su questi fiori,/ su altri visi d'amanti./ Ci ritroveremo ancora insieme/ fra le labbra di altri baci,/ saremo zuccheri e aminoacidi, /saremo insetti di primavera/ e polline nel vento./ Non temere,/ ci cercheremo sempre.
IN CAMMINO VERSO L’ORIENTE (Memorie d’un passeggere)

Io ho atteso/ non so più quanto/ dall’eterno/ e dal perduto/ io ho atteso/ fino ad oggi/ e fino ad ora/ perché sapevo/ di questa sorgente/ e di questa fresca radura./ Ho sopportato la siccità/ sfidato i diluvi/ combattuto il sonno/ e l’umano sfinimento/ perché sapevo di questo ristoro/ di quest’oasi/ dove per un solo attimo/ potrò sostare;/ ma io ho atteso,/ ho atteso quest’attimo/ e dunque fammi entrare/ nella cornice del tuo sguardo/ vi trascorrerò come un pensiero/ poi riprenderò la mia bisaccia/ e di nuovo sarò lontano:/ pensami in cammino verso l’Oriente.